Il CCII entrerà in vigore il 1° settembre 2021, salvo quanto previsto dal secondo comma dell’art. 389: riflessioni a margine
Ed è proprio con l’intento di evitare che il collasso di cui sopra divenga realtà che gli uffici legislativi emanano con cadenza pressoché settimanale leggi e decreti, ordinanze e circolari che a rotazione finiscono con l’interessare tutti i rami del diritto, poiché si sa: diritto e politica sono due entità tra loro interconnesse.
L’ultimo turno in ordine cronologico toccato al diritto fallimentare – o meglio: a quello che avrebbe dovuto essere il futuro diritto della crisi d’impresa – è rappresentato dal decreto–legge 8 aprile 2020, n. 23, «recante disposizioni urgenti per il sostegno alla liquidità delle imprese e all’esportazione».
Ma che cosa prevede – tra l’altro – questo decreto nello specifico? In verità, nulla che non fosse già stato immaginato e ipotizzato nel passato più recente: la posticipazione dell’entrata in vigore del Codice della crisi. Per l’esattezza, l’articolo 6 di tale provvedimento dispone che «all’art. 389 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 [i.e. il Codice della Crisi, per l’appunto] il comma 1 è sostituito dal seguente «1. Il presente decreto entra in vigore il 1° settembre 2021, salvo quanto previsto al comma 2».
Le ragioni di una tale scelta si rinvengono nella Relazione Illustrativa al decreto medesimo e possono essere così riassunte:
- l‘inadeguatezza delle misure di allerta di fronte alla mutata realtà economica;
- il fatto che in un contesto storico di probabile «crisi degli investimenti…il Codice finirebbe per mancare incolpevolmente il proprio traguardo», e cioè «un quanto più ampio possibile salvataggio delle imprese e della loro continuità»;
- la «situazione di sofferenza economica» sconsiglia di esporre gli operatori alle «incertezze collegate ad una disciplina in molti punti inedita»;
- il consentire «di allineare il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza alla emananda normativa di attuazione della Direttiva UE 1023/2019 in materia di ristrutturazione preventiva delle imprese».
Detto questo, credo che non sia corretto relegare la notizia della posticipazione della entrata in vigore del Codice della Crisi al settembre 2021 ad un fatto di pura e semplice cronaca, ma che sia invece doveroso svolgere qualche ulteriore riflessione.
Non foss’altro alla luce della circostanza che nell’art. 389 del C.C.I. viene ancora fatto «salvo quanto previsto al comma 2».
Vale a dire: quell’inciso che introduceva fin dall’inizio una deroga in forza della quale sedici articoli del Codice (per l’esattezza: gli artt. 27, 1° co., 350, 356, 357, 359, 363, 364, 366, 375, 377, 378, 379, 385, 386, 387 e 388) sarebbero entrati in vigore immediatamente, e cioè il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione del Codice medesimo. Ed infatti, ancorché un’anticipata entrata in vigore di tali disposizioni rispetto al loro corpus normativo di appartenenza sia stata rappresentata come un modo per favorire la transizione tra disciplina vecchia e nuova, v’è da chiedersi se questo periodo di transizione non sia oggi diventato troppo lungo, tanto da rendere quelle disposizioni fonte di nuovi problemi interpretativi e applicativi, o peggio se tali disposizioni, rinvio dopo rinvio, finiranno con il non essere mai applicate.
L’emblema di quel che sto dicendo è ben rappresentato dalle note vicende che, fino a pochi giorni fa, hanno interessato l’art. 379 del C.C.I. Mi spiego meglio.
Tale norma ha reso obbligatoria la nomina dell’organo di controllo e del revisore anche per quelle società che superano i parametri indicati dall’art. 2477 c.c. (i.e.un attivo patrimoniale superiore € 4.000.000;ricavi da vendite e prestazioni superiori a € 4.000.000; dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 20 unità).
Bene: il Codice individuava il 16 dicembre 2019 (vale a dire: il nono mese successivo all’entrata in vigore dell’art. 379 C.C.I. che era il 16 marzo 2019) quale termine ultimo per l’adeguamento degli assetti sociali al mutato contesto legislativo. Ma poi – a termine ampiamente scaduto, quando le società che si erano uniformate alla nuova normativa rappresentavano meno del trenta per cento di quelle che vi erano tenute – ecco che il Legislatore interveniva disponendo un primo rinvio.
Più in particolare, al comma 6 sexies dell’art. 8 del decreto Milleproroghe (d.l. 30 dicembre 2019, n. 162) veniva disposto il differimento del termine del 16 dicembre di cui sopra alla «data di approvazione dei bilanci relativi all’esercizio 2019» ovvero, di regola, entro centoventi giorni decorrenti dal 31 dicembre 2019. Ora, con l’art. 106 del decreto Cura Italia (d.l. 17 marzo 2020, n. 18), tale termine veniva implicitamente portato per tutte le società a centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio 2019, poiché tale articolo – alla luce dell’emergenza Covid-19 – ha disposto che «in deroga a quanto previsto dagli articoli 2364, secondo comma, e 2478-bis, del codice civile … l’assemblea ordinaria [quella destinata all’approvazione del bilancio d’esercizio, ndr] è convocata entro centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio».
Come è facile intuire, un tale susseguirsi di rinvii non può che portare con sé dubbi interpretativi e conseguenze pratiche tutt’altro che irrilevanti. Mi limito a citarne un paio.
Cominciamo da un dubbio interpretativo: se l’obbligo per la nomina dei revisori e dei sindaci scade con l’approvazione del bilancio 2019, i bilanci da prendere a riferimento per il superamento delle soglie fissate dall’art. 2477 c.c. – e, dunque, per il ricorrere dell’obbligo di procedere alla nomina di revisori e sindaci – sono quelli relativi al biennio 2018/2019 o quelli relativi al biennio precedente? La domanda non è certo priva di implicazioni: si pensi, infatti, al caso in cui i parametri dell’art. 2477 c.c. non risultino superati nel biennio 2018/2019, quando, se si fosse preso a riferimento il biennio precedente, il risultato sarebbe stato opposto. Il tenore letterale delle norme, invero, porterebbe e credere come giusta la prima risposta: il Legislatore ha infatti differito la scadenza del termine per ottemperare all’obbligo ad un momento temporale nel quale già potrebbe esistere un nuovo bilancio (quello del 2019, per l’appunto) rispetto al quale non si potrebbe fare semplicemente finta di nulla. Cosa, invece, che sarebbe stata ben possibile fare nel caso in cui il Legislatore avesse stabilito – come forse sarebbe stato opportuno stabilire – che, nonostante la proroga, i bilanci da prendere a riferimento avrebbero dovuto essere quelli relativi al biennio 2017/2018, come di fatto è stato per tutte quelle società che hanno tenuto comportamenti diligenti uniformandosi alla legge per tempo.
Concludiamo ora il discorso con un’implicazione pratica: le società che hanno disposto la nomina del revisore prima del 16 dicembre 2019 hanno dovuto sottoporre a revisione già il bilancio relativo a quell’esercizio. Quelle invece che non si sono uniformate alla legge sottoporranno a revisione il bilancio di competenza dell’esercizio successivo, creando così un’evidente disparità di trattamento, quanto a costi sostenuti e a qualità dell’informativa resa all’esterno. Insomma: per tutto il 2020 potrà capitare che vi saranno società assolutamente identiche quanto a dimensioni che, tuttavia, si troveranno – io credo – del tutto ingiustificatamente a soggiacere a regimi diversi, l’uno ben più gravoso dell’altro.
Sicché una domanda, in ragione di quanto sopra, viene più che spontanea: quel secondo comma dell’art. 389 del C.C.I. ha davvero favorito la transizione tra disciplina vecchia e nuova, o non ha invece complicato ulteriormente il quadro normativo?
(Fonte: ilfallimentarista.it)
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