Relazioni sindacali al tempo del Covid-19: l’azienda in crisi non resta immune
La rincorsa al decreto quale new deal per le parti sociali
Il sistema di legiferazione utilizzato dal Governo per affrontare l’emergenza epidemiologica legata al COVID-19 è stato caratterizzato dalla sottrazione della linea operativa alla dialettica parlamentare, sostituita dall’azione diretta dell’Esecutivo, caratterizzata da rapida emissione e concreta applicazione.
Non vi è dubbio che la scelta dell’accentramento della produzione normativa abbia agevolato la continuità delle previsioni prodotte dai plurimi DPCM; per contro è parso più complesso il coordinamento dei Decreti Legge caratterizzati di richiami allegorici: dal “Cura Italia” fino al “Rilancio”, passando per il “Liquidità”. Le difficoltà nel confrontare posizioni distanti in un momento di massima emergenza, ha sortito una predisposizione alla digestione della Decretazione d’urgenza via via convertitasi in insofferenza, con il diluirsi della fase connessa all’imprevedibilità.
Dalla regolamentazione di Governo è uscito appagato il sindacato, protagonista di questa maratona e coinvolto nei più importanti passaggi normativi in vigore, fino a contribuire alla definizione vera e propria dei contenuti precettivi.
Il Decreto 18/2020 ignora le sollecitazioni dei tecnici circa la necessità di conferire speditezza operativa all’accesso agli ammortizzatori, confermando la necessaria condivisione con le parti sociali della circostanza che ne giustifica il ricorso. Con riferimento a determinati strumenti di assistenza (cassa integrazione in deroga e fondo FSBA su tutti) emerge addirittura l’accordo con le OOSS, quale conditio sine qua non per l’accesso allo strumento.
Questa proceduralizzazione, oltre a virare in direzione opposta rispetto alla fluida gestione della crisi, grava maggiormente sui soggetti già interessati da situazioni di dissesto antecedente l’emergenza in corso, in quanto la scarsa disponibilità di margine economico/operativo utile alla condivisione sindacale, obbliga l’azienda a presenziare al tavolo di trattativa in condizione notevolmente depotenziata.
Si aggiunga un quadro che, nelle ipotesi di continuità, non depone a favore delle aziende in crisi, sottoponendole al sindacato di valutazione circa la congruità della revisione posta al sistema produttivo, nel rispetto dei protocolli che proprio le parti sociali hanno definito come base minima per la ripartenza.
La scelta dell’azienda oscilla tra l’adeguamento di una struttura con ogni probabilità già obsoleta ante emergenza, con l’inevitabile impiego di nuove risorse, ed il rischio di ripartire senza il congruo adeguamento, esponendosi a mortificanti conseguenze sul piano economico.
Si pensi infine al possibile accesso al credito speciale innescato dal Decreto Liquidità. Al netto delle evidenti, e prevedibili, difficoltà operative, rimane da considerare la posizione delle aziende in crisi, anche alla luce della concorrente sospensione ex art. 10 D.L. n. 23/2020.
Protocollo sicurezza ed analessi sanzionatoria
In data 14 marzo 2020, in piena evidenza pandemica, il Governo e le parti sociali hanno sottoscritto un protocollo finalizzato a garantire la tutela dei lavoratori dal rischio Covid-19. Tale approccio regolatorio è stato poi adattato ai diversi settori, dando vita a declinazioni da genus a species (Quale esempio si cita il protocollo specifico per le aziende che operano in cantieri), finalizzate a fornire linee guida necessarie ad affrontare medio tempore l’imprevista emergenza.
Nelle immediate ore che hanno preceduto il DPCM illustrativo della Fase 2, esattamente il 24 marzo 2020, il protocollo originale è stato arricchito ed aggiornato dalle medesime parti sociali, unitamente al Governo, al fine di regolare l’accesso in azienda lungo il corso della fase di ripartenza. Resta inteso che trattasi di protocollo, strumento assente ex se dalla gerarchia delle fonti, inabile quindi a sostenere un congruo apparato sanzionatorio.
In spregio alle suesposte osservazioni, l’INL si è impegnato tempestivamente (Le note che muovono l’adeguamento dell’azione ispettiva sono le 131 e 149/2020 dell’INL) a sostenere la regolazione delle attività lavorative in tempo di lockdown, procedendo proprio in forza di un protocollo esprimente efficacia limitata al mero diritto comune, privo quindi di reale forza precettiva salvo per gli aderenti.
L’impotenza sanzionatoria ha costretto il Governo, intenzionato ad insistere su questo aspetto, ad applicare un’analessi di Vigorelliana ( Il sistema utilizzato ricalca la logica dei Decreti Vigorelli quando il Governo, su delega del Parlamento, si prodigò a recepire i contratti collettivi di diritto comune al fine di conferirne forza di Legge) memoria, tale da recepire, conferendo quindi valore legale, il protocollo all’interno del DPCM 26 aprile 2020 immediatamente successivo, ed aggiungendo anche un precipuo apparato sanzionatorio, culminante nella sospensione dell’attività. Paradossalmente il passaggio dalla fase emergenziale a quella strutturale scavalca l’opzione, auspicabile, del ritorno alle fonti del diritto, forzando per converso l’opzione del consolidamento della regolazione tramite accordo di parte.
Non è tutto
Recepito il protocollo nella linea guida ufficiale della fase due, ogni datore di lavoro dovrà adeguarsi non solo per tutelarsi dall’azione ispettiva, ma altresì per ripararsi dall’imprevedibile effetto dell’art. 2087 del codice civile, che, in quanto a stimoli per la definizione del danno a carico dell’imprenditore, lascia aperte le più ampie possibilità.
Le regole stringenti individuate da alcune parti sociali vengono quindi ritenute dal governo applicabili erga omnes. Le aziende che si trascinano una difficoltà latente o manifesta già dal periodo precedente all’emergenza, oltre ad aver subito un’incolpevole sospensione dell’attività si trovano ora costrette tra la morsa dell’art. 46 della Legge 27/2020 (nella formulazione estesa dal Decreto Rilancio), che vieta ogni tipo di licenziamento di natura economica (in questo senso si veda in questo portale A. Corrado, Sospensione dei licenziamenti per emergenza Covid-19 vs sospensione nella liquidazione giudiziale: a chi serve irrigidire le regole del gioco, 24 aprile 2020;), e l’impossibilità di riprogrammare una proficua operatività, stante l’orizzonte incerto. Si aggiunga quindi che, qualora rispetto alla chiusura si optasse per la ripartenza, il protocollo di nuova stesura imporrebbe costi proibitivi di adeguamento oltre ad una revisione totale dei sistemi organizzativi di lavoro. Non proprio lo scenario migliore per superare lo status emergenziale.
Lo stesso protocollo del 24 aprile all’art. 13 sottopone le aziende ad un ulteriore passaggio connesso alle relazioni sindacali, la cui portata per essere compresa richiede necessariamente un’interpretazione coerenziale: “…E’ costituito in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS. Laddove, per la particolare tipologia di impresa e per il sistema delle relazioni sindacali, non si desse luogo alla costituzione di comitati aziendali, verrà istituito un Comitato Territoriale composto dagli Organismi Paritetici per la salute e la sicurezza, laddove costituiti, con il coinvolgimento degli RLST e dei rappresentanti delle parti sociali. Potranno essere costituiti, a livello territoriale o settoriale, ad iniziativa dei soggetti firmatari del presente Protocollo, comitati per le finalità del Protocollo, anche con il coinvolgimento delle autorità sanitaria locali e degli altri soggetti istituzionali coinvolti nelle iniziative per il contrasto della diffusione del COVID 19…”.
Le previsioni contenute in questo articolo non devono quindi intendersi come obbligo all’ istituzione di nuovi organismi sindacali, potendo ben sopperire l’azienda tramite i comitati esterni all’azienda. Si aggiunga che proprio la via alternativa posta dal secondo comma del medesimo protocollo legittima l’identificazione ermeneutica della facoltà di creare tale comitato (In questo senso Fondazione Studi Consulenti del Lavoro approfondimento 11/05/2020).
Resta da capire se lo scenario illustrato possa realisticamente sposarsi con la sospensione delle azioni prefallimentari (Su questo aspetto si veda F.Lamanna Il “blocco” dei procedimenti prefallimentari imposto dal Decreto Liquidità in questo portale 14 aprile 2020), posto che le complicazioni operative descritte agevolerebbero un rapido accesso agli strumenti concorsuali, provocando un accanimento terapeutico privo di sbocchi (la sospensione non viene infatti accompagnata da misure alternative, nell’utopia che possa bastare il blocco procedurale per garantire la continuità aziendale, senza considerare che proprio l’infierire in situazioni economiche precarie dovrà accompagnarsi con un efficace esonero di responsabilità a carico degli amministratori, stante l’impossibilità degli stessi di attingere a strumenti di composizione o autofallimento).
Il grande interrogativo non può che legarsi alla posizione del sindacato. Il ruolo centrale assunto dalle parti sociali ha richiesto inizialmente una rapida azione, espletata prevalentemente da remoto, per definire le condizioni di intervento dell’ammortizzatore. Concertazioni superflue in quanto, posta l’assenza di res dubia, la trattativa andava a vertere prevalentemente su ciò che le aziende potevano offrire in aggiunta all’intervento statale, gravando le procedure di un rallentamento operativo non richiesto.
La Fase 2 delle relazioni sindacali dovrà mirare alla ripartenza che, laddove l’azienda si trovi in difficoltà, risulterà assolutamente gravosa. Serviranno relazioni sindacali moderne dove l’azienda in crisi riesca ad esporre chiaramente le prospettive di ripresa e il sindacato risponda con una reale disponibilità anche e solo ad accompagnare l’avvicinamento alla procedura concorsuale, permettendo di operare fino alla riattivazione dei tribunali.
In un unico progetto di ristrutturazione, in tempi rapidissimi, l’azienda in crisi dovrà in sequenza sanare l’eventuale posizione pregressa rispetto al Covid e predisporre il piano di rispetto del protocollo. Pur con l’aiuto che potrà apportare un’intesa negoziale ad hoc, per un’azienda in crisi questo scenario pare francamente un percorso ad ostacoli oltre che eccessivamente dispendioso.
Gestione (condivisa) dei livelli occupazionali
Fedele alla linea tracciata dal Governo, il Decreto liquidità conferma alla concertazione sindacale un ruolo da protagonista. L’annunciata “poderosa” erogazione di risorse viene subordinata a precise condizioni, tra le quali ne spicca una di origine tutt’altro che economica. Alle aziende che beneficeranno del credito liberato dal piano del DL Liquidità tramite la garanzia di SACE SPA viene richiesto dall’art. 1, comma 2, lett. l), l’impegno “…a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali…”.
La previsione, talmente generica da offrire uno scenario applicativo tutt’altro che compiuto, forza la condivisione con le parti sociali di ogni valutazione organizzativa coinvolgente la popolazione aziendale (“…sembra alludere, ad una prima lettura, ad una cogestione dell’impresa tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali. Infatti, una espressione così ampia sembra includere tutti i processi organizzativi, non solo quelli di riduzione, ma anche di eventuale modifica delle mansioni dei dipendenti ovvero, ancora di crescita occupazionale, che diventano appannaggio anche delle rappresentanze dei lavoratori…”, così M. Dalle Cave, Garanzia di finanziamenti e gestione dei livelli occupazionali con accordi sindacali, Guida al Lavoro 18/2020).
Questo vincolo andrà ad estendersi per tutta la durata del piano di rientro, aprendo scenari di profonda incertezza.
In primo luogo non è dato sapere quali siano le parti sociali da coinvolgere nel dialogo, posta la definizione generica e quindi paradossalmente contenitiva di ogni forma di confronto. Sarà l’azienda quindi a scegliere su che livello operare, avendo cura di sostenere due criteri che, pur non richiamati dalla disposizione, agevoleranno il dialogo anche al solo fine di evitare qualsivoglia rischio di riconduzione alla procedura ex art. 28 L. 300/1970. Attenzione quindi al coinvolgimento delle rappresentanze aziendali, nonché la considerazione, pur in assenza di indici di ponderazione, delle sigle che possano esprimere concreta rappresentanza.
In secondo luogo non è chiaro quali siano gli atti gestori coinvolti dal passaggio preventivo. Si potrebbe infatti pensare ad ogni singola azione inerente il personale tale da coinvolgere non solo le soluzioni in perdita, conferendo quindi valore gestionale alle intese, ma altresì potrebbe essere letto come un vero e proprio accordo di stampo normativo necessario per ogni valutazione circa assunzioni, orario di lavoro ecc. Nemmeno pare chiaro il grado di penetrazione sindacale sulle scelte datoriali. La linea difensiva creata dall’art. 41 della Costituzione potrebbe in parte vacillare, laddove la posizione sindacale incorpori potenzialità di veto all’accesso al credito.
In terzo luogo non è stato specificato il margine d’azione aziendale. Non pare peregrina la tesi di superflua definizione dell’accordo, eppure l’aspetto non viene completamente affrontato. La lettura del dato testuale non pare affatto propendere per il necessario raggiungimento di un accordo, depotenziando notevolmente l’azione sindacale.
Infine non paiono chiari i risvolti sanzionatori connessi al disatteso, volutamente o meno, impegno sottoscritto in sede di richiesta del finanziamento. Si dovesse trattare di mera condizione di accesso, pare scontata quantomeno la revoca del finanziamento pena il rientro immediato. SACE SPA (garante) risulta unico soggetto penalizzato, e quindi interessato all’accertamento dell’inadempimento, pronto a ricevere l’escussione delle garanzie da parte del sistema bancario (Concordano A. Sitzia e G. De Luca in Cosa si intende per “impegno a gestire i livelli occupazionali mediante accordi sindacali” ai fini del “decreto liquidità”, Bollettino Adapt maggio 2020).
Quest’ultima pare anche rappresentare la conseguenza più plausibile, connessa evidentemente ad un rischio di citazione ex art. 28 L. 300/1970, questo per sola parte sindacale, in caso venga omessa l’informativa che anche la legge considera obbligatoria. Questo aspetto peraltro incorpora risvolti in materia penale ex art 650 c.p., che l’imprenditore non avrà certo l’ambizione di incontrare.
Condivisibile o meno, la scelta di ergere il sindacato ad interlocutore necessario comporta una responsabilità che non avverte i migliori auspici, tantopiù ove non definita nei contorni. Le relazioni in questo senso saranno ancora una volta tutte da costruire ma, a differenza di quanto illustrato in tema di negoziazione connessa al protocollo sicurezza, dovranno essere plasmate ed adattate allo sviluppo del mercato nei prossimi anni.
Calando la fattispecie descritta nel palcoscenico della crisi d’impresa, la prima valutazione da porre sarà proprio quella della ricorribilità alla misura prevista. La garanzia di Sace potrebbe essere sicuramente appetibile, ma andrà coniugata con la reale possibilità di onorare gli obblighi connessi e gli impegni assunti. Sul punto le condizioni poste dal comma 2 del Liquidità accolgono unicamente le aziende estranee alla categoria delle imprese in difficoltà di accezione europea, oltre all’assenza di esposizioni deteriorate dal febbraio 2020.
Superate le valutazioni sul merito creditizio, il passaggio successivo interessa le relazioni sindacali che, per le aziende vicine alla decozione, potrebbero rappresentare un doppione delle procedure già previste per i licenziamenti o per il ricorso agli ammortizzatori ove previsti (Problema segnalato anche da Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, approfondimento del 27/04/2020). Pur nel rispetto del principio ne bis in idem, non sembra scontata l’ipotesi dell’assorbimento degli uni negli altri e vale la pena ricordare che un unico errore di valutazione potrebbe generare serie conseguenze.
La soluzione cautelativa deve propendere per la cura dell’aspetto formale della negoziazione: la definizione dei testi. Dall’ideazione dell’informativa di avvio e dalla verbalizzazione degli aspetti condivisi, deve apparire chiaro l’intento di esperire, oltre alla procedura ordinaria di legge, la procedura specifica connessa alla novella del Liquidità. L’attenzione massima alle clausole potrà alleggerire il rischio anche in modo significativo.
Più morbida la previsione di cui all’art. 13 del DL Liquidità, che supera il problema del merito creditizio, non richiesto, accogliendo altresì le aziende ammesse alla procedura di concordato o stipulanti un piano di ristrutturazione dei debiti, oppure che abbiano presentato un piano di risanamento ex art. 67 LF a partire dal 1° gennaio 2020. Interessante sottolineare l’assenza di passaggio sindacale, in altri momenti scontato, per tutte queste previsioni.
Nel contesto emergenziale queste lacune nel testo possono considerarsi in parte sostenibili, grazie anche a tempi di concessione degli importi ben più lunghi del previsto, ma non potrà riceversi una conversione del Decreto Liquidità che incorpori ancora tali incertezze.
Ammortizzatori sociali in area Covid-19
L’apparato di assistenza rappresentato dagli ammortizzatori si erge a più alta espressione di salvaguardia dei livelli occupazionali, tanto più se assistito da una contemporanea inibizione, dalla dubbia tenuta costituzionale, ai recessi in area economica.
Le aziende in difficoltà, ma non si escludono chiaramente anche quelle in buona salute pur vessate dalla particolare situazione connessa al COVID, devono necessariamente ricorrere all’assistenza dovendosi scontrare però con un farraginoso sistema di interventi. Diverse tipologie di ammortizzatore si accompagnano a diverse procedure, anche e soprattutto in area sindacale.
Confermata la tipizzazione di ogni singolo ammortizzatore, il legislatore ha inteso ammorbidire solamente la proceduralizzazione del confronto sindacale tanto nei tempi, riduzione concessa fino a tre giorni, quanto nei modi, utilizzo di sistemi telematici peraltro obbligati dai noti motivi sanitari. Fino ad ora il confronto non si è dimostrato sempre fluido, stante l’eterogenea presenza nel territorio del sindacato ed il diverso sviluppo dell’azione.
Appurato ciò, l’aspetto chiave delle aziende in crisi su questo punto, a differenza dei precedenti, non vede grande differenza tra l’azienda in crisi indipendente dall’emergenza epidemiologica rispetto alle altre, se non nella virata verso uno strumento “a costo zero” rispetto a quello in corso di fruizione o fruibile fino all’intervento provvidenziale del Decreto Cura Italia.
L’aspetto critico investe invece le ipotesi di azienda decotta che si trovi in condizione di fallimento già dichiarato, prima delle sospensioni previste dai decreti. Ad un blocco dell’attività imposto con urgenza dal DPCM si è sommata l’inibizione ai recessi, driver decisivo per la sospensione dei rapporti di lavoro ai sensi dell’art. 72 LF.
La ratio legis “nessuno escluso” rischiava quindi di dimenticare questi soggetti.
Provvidenziale l’operazione ermeneutica svolta dalla circolare ministeriale 8/2020, che consente l’estensione della cassa integrazione in deroga anche alle aziende fallite.
Appare quindi uno scenario confortante per aver trovato una soluzione, ma non particolarmente edificante dal punto di vista dei dubbi operativi connessi. Non si dimentichi che il Ministero del lavoro opera tramite un documento di prassi che estende uno strumento non propriamente legittimato dal legislatore (nemmeno il testo del Decreto Rilancio chiarisce espressamente questo aspetto).
Poco male, non si intravede nemmeno un’esclusione specifica, quindi, atteso che non viene richiesta alcuna garanzia di ripresa dell’attività per il ricorso all’ammortizzatore (fatta eccezione per le linee guida alla CIGD pubblicate da alcune regioni. In alcuni casi l’inserimento della condizione legata alla ripresa non può che ricondursi ad un refuso dovuto alla ripresa di testi datati), può sicuramente condividersi il passaggio della circolare che offre un’opportunità sicuramente allettante, nonché alternativa alla mera sospensione ex art. 72 che priva il lavoratore di ogni sostegno reddituale.
Anche questa interpretazione però non risulta scevra dai lati oscuri.
In prima battuta non risulta chiaro se la cassa in deroga sia l’unico ammortizzatore attivabile per le aziende dall’insolvenza accertata. Se così fosse la richiesta risulterebbe slegata dai requisiti di inquadramento, pertanto solo le aziende in fallimento godrebbero del ricorso all’ammortizzatore unico. Tale lettura però non convince. Non si comprende come possa negarsi la riconducibilità dell’azienda decotta allo strumento previsto dal proprio settore di appartenenza, posto che anche le altre tipologie di cassa godono, per la specifica causale covid, di provviste stanziate ad hoc.
L’aspetto che rileva è comunque la garanzia del trattamento indipendentemente dalla caratterizzazione nominativa, ma il dubbio andrà chiarito per non perseverare in ostacoli procedurali.
Dal punto di vista delle relazioni sindacali, le crisi non concederanno spazio a pretese di controparte sindacale accompagnando la navigazione dell’imprenditore in crisi, piuttosto che del curatore, verso il porto sicuro dell’ammortizzatore, considerato anche il limite dei tre giorni all’esaurimento della concertazione sindacale, che sicuramente gioverà alla speditezza delle operazioni.
Tassello delicato quello invece dell’accordo previsto per l’ammortizzatore in deroga. Permane infatti senza risposta il dibattito dottrinale inerente l’obbligo o meno dell’accordo, scaturito dall’impreciso dettato, peraltro riconfermato nella sua incertezza anche nella conversione del Decreto Cura Italia.
Nonostante questi aspetti, viene imposta alle aziende più dimensionate la definizione di un accordo, garantendo al sindacato la possibilità di porre condizioni, anche gravose, verso le quali la disponibilità datoriale risulterebbe determinante ai fini della procedibilità dell’istanza (Si ricorda che per effetto dell’art 46 D.L. n. 18/2020 le aziende che non ricorrono all’ammortizzatore non possono procedere a licenziamenti per motivi economici).
Circa l’obbligatorietà o meno di giungere alla definizione di un accordo si sono spesi diversi litri d’inchiostro. Il dibattito, oltre ad illustri interpreti, ha visto esporsi provvidenzialmente la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro (con approfondimento del 6 aprile 2020 la Fondazione Studi, per la penna di Pasquale Staropoli, qualifica l’accordo sindacale per la cassa in deroga come mera facoltà) che teorizza la “facoltà” dell’intesa, considerando comunque rispettato il disposto del Cura Italia stante la sottoscrizione dell’accordo Quadro in sede regionale; per converso altri interpreti teorizzano l’ “obbligo” procedurale ritenendo molto rischioso il mancato raggiungimento dell’accordo (“Il mancato accordo sindacale trappola per i lavoratori” di G.Falasca in Il Sole 24ore del 1 aprile 2020).
Chi scrive non può non richiamare, pur sinteticamente, i principi cardine della contrattazione di secondo livello al quale l’accordo sindacale de quo appartiene. Le relazioni sindacali in tema di ammortizzatori conferiscono all’accordo valore gestionale (in perdita), incorporante un’efficacia riconosciuta erga omnes dal Giudice delle Leggi (La Corte Costituzionale 268/1994 apre un dibattito acceso in dottrina circa la limitazione all’azione individuale del datore di lavoro in caso di accordi gestionali: “…L’effetto erga omnes discende pur sempre dall’atto del datore di lavoro che esercita i suoi poteri imprenditoriali e non dall’accordo sindacale gestionale, che si configura quale mero tramite, peraltro eventuale, per la procedimentalizzazione dell’esercizio di quei poteri…”; sul tema dialogano P. Tosi, F. Carinci, R. De Luca Tamajo, T.Treu al capitolo IX de Il contratto collettivo nel lavoro privato, in Il Diritto Sindacale V edizione UTET).
L’accordo può e deve sempre restare una “possibilità” utile a definire i contorni della vicenda da assistere e non la condizione per ottenere il trattamento, tanto che in senso contrario si concederebbe alla parte sindacale un vero e proprio veto all’accesso all’ammortizzatore [(La domanda da porsi nel caso è se una presa di posizione sindacale possa davvero fermare l’emergenza COVID-19. Inoltre un pensiero va dedicato al possibile effetto del mancato accordo. Propendesse infatti un giudice per l’obbligatorietà dell’intesa: condannerebbe l’azienda a riaprire o il datore di lavoro a pagare le retribuzioni per una prestazione palesemente irricevibile?) ( Lapidario M.Persiani: “…La mancanza di una legge sindacale e il regime del pluralismo conseguente al principio della libertà sindacale, escludono esista una disciplina che, a differenza di quando accade nel pubblico impiego, presidia alla stipulazione dei contratti collettivi dei dipendenti da privati datori di lavoro…”, in Diritto Sindacale XVI edizione CEDAM)].
Un accordo obbligatorio infatti non sarebbe più classificabile come gestionale, bensì assumerebbe contorni autorizzativi. L’unico accordo che assume valore autorizzativo in tema di ammortizzatori sociali è quello, necessario, previsto per accedere al contratto di solidarietà, ma l’utilità dell’accordo, in quel caso, non attiene alla definizione della crisi, bensì regola l’incidenza oraria della stessa nell’organizzazione aziendale, prodromica ad evitare licenziamenti altrimenti inevitabili (Il datore di lavoro è l’unico soggetto abile a valutare la penetrazione della crisi all’interno dell’impresa, le OOSS dal canto loro elevano il loro ruolo nell’ambito della discussione legata alle misure ed alle modalità utili ad affrontare e superare la crisi).
L’eventualità di dover forzare la condivisione del testo sindacale obbliga la cessione di terreno all’avanzata delle pretese sindacali. Resta inteso che in presenza di impresa coinvolta dalla crisi pur nel rispetto di dover raggiungere un’intesa, l’assenza di ossigeno possa provocare due diverse situazioni: l’adesione forzata alle pretese di controparte pena il definitivo soffocamento dell’attività per impossibilità di accedere all’ammortizzatore, oppure la resistenza con mancato accesso allo strumento per assenza di condivisione sul punto. Tale ultimo aspetto, considerata l’impossibilità di risolvere il rapporto di lavoro per motivi economici, non può che tratteggiare una situazione di impasse, ove la prestazione dei lavoratori risulterebbe irricevibile tanto da generare la sospensione del rapporto senza diritto alcuno alla retribuzione per sganciamento dal vincolo sinallagmatico ai sensi dell’art 1460 cc..
La lettura che propende per l’obbligo della sottoscrizione dell’accordo, pertanto, non pare agevolare i dipendenti di aziende ove la crisi risulti conclamata ed ancor meno quelli di aziende dalla dichiarata decozione, minando proprio l’obiettivo dell’estensione del trattamento alle procedure concorsuali.
Per quanto consta, relativamente alle aziende plurilocalizzate l’aspetto procedurale assume aspetti alquanto bizantini. Dal punto di vista operativo le istanze seguono la competenza territoriale dell’unità produttiva obbligando, qualora l’ammortizzatore richiesto si identifichi nella cassa in deroga, all’inoltro di tante istanze quante sono le regioni di collocazione delle unità produttive interessate. Qualora le unità produttive interessate risultino più di cinque (l’art. 73-ter del Decreto Rilancio rimette in discussione il limite dimensionale utile all’accesso alla procedura unificata), l’istanza dovrà inviarsi unicamente presso il Ministero del Lavoro, forte di una semplificazione più formale che sostanziale (in questo senso si veda la recente circolare INPS n. 58/2020).
L’aspetto correlato alle plurilocalizzate riguarda però la trattativa sindacale. Non vi è infatti alcun riferimento atto ad individuare l’interlocutore specifico: L’art. 22 del D.L. n. 18/2020 convertito in Legge 27/2020 precisa infatti: “…previo accordo che può essere concluso anche in via telematica con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale per i datori di lavoro…”.
Chiaro quindi come ogni azienda possa liberamente, a seconda della propria conformazione e del proprio vissuto, confrontarsi unicamente con le rappresentanze interne, nella declinazione aziendale o unitaria, ed in aggiunta, oppure in alternativa in assenza di queste, con le rappresentanze territoriali che fanno capo ad ogni unità produttiva, o infine accentrare il tutto in sede nazionale tramite la relazione diretta con le segreterie federali.
La circolare 8/2020 del Ministero del Lavoro stabilisce che “…Le domande dovranno essere corredate dall’accordo sindacale…” declinato al singolare, mentre nelle successive Faq dello stesso dicastero viene rafforzata l’ipotesi di intesa unica: “… l’istanza al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dovrà essere accompagnata da un unico accordo sindacale…” . Tale concessione, peraltro scontata, non indentifica altro che una mera possibilità, stante la libera scelta aziendale di valutare l’interlocutore più adatto al caso di specie, non risiedendo all’interno del diritto sindacale alcun disposto che imponga la sintesi delle esigenze territoriali, salvo il caso di previsione espressa nella specifica legge legata all’istituto. Inutile precisare che in questo caso il riferimento risulta assente.
Assunta la dinamica sindacale connessa a questi ammortizzatori già noti, ma calati in una dimensione del tutto nuova ed imprevedibile, l’azienda in difficoltà opterà per l’ipotesi più consona alla propria situazione soggettiva. La misura della crisi guida la scelta dell’interlocutore, vi sarà infatti il caso di azienda le cui relazioni sindacali risultano profondamente radicate nel territorio, che, anche per speditezza, necessiterà del confronto decentrato, mentre al contrario l’azienda priva di storia sindacale opterà con ogni probabilità per l’accentramento della trattativa in modo da esaurire con un’unica consultazione l’intera problematica.
Laddove la cassa inerisca un’azienda già coinvolta in procedura concorsuale, l’aspetto del mantenimento dell’interlocutore già noto non può che assumere ulteriore rilievo, posto che non risulterà necessario l’approfondimento circa il motivo di ricorso all’ammortizzatore.
In sede di conversione la legge 27/2020 ha alleggerito la posizione riferita all’obbligo negoziale, esonerando i casi di chiusura aziendale imposta: “… L’accordo di cui al presente comma non è richiesto [ … ] per i datori di lavoro che hanno chiuso l’attività in ottemperanza ai provvedimenti di urgenza emanati per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID-19…”.
Questa precisazione, estremamente tardiva posta la vigenza connessa ai tempi di pubblicazione (quindi al momento in cui la quasi totalità delle procedure potevano considerarsi esaurite), è poi stata rivista dal Decreto Rilancio che all’art. 73, comma 1, lett. a) reintroduce l’obbligo rendendo di fatto nullo l’effetto della semplificazione.
In ultima analisi si ricorda come proprio in ambito concorsuale viga un principio, per la verità legato ad un’epoca specifica di crisi ed ad una tipologia specifica di cassa, secondo il quale l’ammortizzatore concesso anche in assenza di requisiti di accesso, e la cassa in deroga in causale COVID potrebbe rientrare in questa casistica, vincoli il responsabile della procedura alla richiesta dello strumento, privandolo di valutazioni di merito circa il possibile ricorso . Ovviamente questo aspetto risulta notevolmente mitigato dall’obbligo di trattativa sindacale, dall’esito tutt’altro che scontato, che non può garantire al curatore la buona riuscita della procedura.
In assenza di disponibilità economica utile alla conduzione di una trattativa su elementi retributivi, l’auspicio è che l’approccio del sindacato in caso di cassa integrazione in deroga per aziende fallite, non vada oltre il rapido riconoscimento dello stato di fatto.
(Fonte: ilfallimentarista.it)
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