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Siamo disposti a perdonare?

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Siamo disposti a perdonare?

Le situazioni variano ma il nucleo concettuale è pressoché il medesimo. A volte – pensiamo ad esempio all’illecita apposizione di un fermo amministrativo – è lo Stato a infliggere un colpo basso; altre volte – pensiamo ad una lite condominiale – è il vicino di pianerottolo a venir meno ad aspettative di giustizia, al meno di pacifica convivenza nel rispetto delle regole. Il lessico vittima-carnefice si presta meglio di qualunque altro ad esprimere la lacerazione che discende da ogni illecito. La ricerca di qualcuno da chiamare a risponderne è compito primario della giustizia, ed epifania del suo enorme fallimento.

In ogni caso, vero o no che (si cerchi e) si trovi un colpevole, dietro una vittima si nasconde sempre un fatto nocivo, a fronte del quale il ripristino dello status quo antea appare spesso difficile. La natura dell’illecito, come si diceva, gioca in proposito un ruolo decisivo. Ad una violazione del diritto di proprietà può porsi rimedio attraverso il reintegro del plenum ius, se questa violazione non assurge al rango di reato, ma se per ipotesi decampasse nel diritto penale le cose cambierebbero. Funziona pressappoco così: a fronte di un reato il soggetto vive un tradimento così profondo e lacerante che il rimedio non è mai satisfattivo delle sue esigenze di giustizia. Factum infectum fieri nequit: non si può tornare indietro. L’utopia che il malum passionis compensi ed annulli il malum actionis è percepita da tutti.

Ecco perché l’interrogativo iniziale – siamo disposti a perdonare? – si coniuga diversamente nelle diramazioni dell’ordinamento giuridico. Ma prima di tutto, esiste il perdono?

Non parlo del perdono giudiziale né di figure affini come il condono. Intendo tematizzare categorie generali. Così, il perdono è superamento soggettivo dell’illecito così come la prescrizione, viceversa, ne determina un superamento oggettivo. Vale a dire, senza perdono non v’è pacificazione sociale, anche quando, per ipotesi, l’illecito perde la sua attualità e non riceve alcuna risposta sanzionatoria; il fuoco che ha divampato, prima o poi, si spegne.

V’è che il perdono, a volte, viene indubbiamente facilitato dal decorso del tempo (che guarisce tutte le ferite), dall’incedere dell’oblio; alla fine dei conti lasciare aperta una ferita duole a chi l’ha subita, e un buon medicamento vale spesso quanto una guarigione.

Non v’è dubbio che alcune rotture delle regole, per l’importanza delle regole o per la modalità dell’infrazione, siano e debbano restare vive, con un carico sanzionatorio che renda attuale il messaggio. Non è tollerabile che alla speranza di farla franca si aggiunga la consapevolezza che nel tempo anche il fatto più nefasto verrà superato. Ecco perché il tempo non basta e il diritto si deve arrendere alla consapevolezza di non saper dare risposte sufficienti, o di non volerle dare, quando le cose rischiano di complicarsi troppo.

L’uomo, però, non è fatto per l’odio e il rancore; il paradiso – insegnano i grandi Santi – non è oltre la vita, per chi ci creda: il male si vince ogni giorno, con la semina del bene, che è data a tutti, nella quotidianità. Il perdono è parte di questa semina, e possiamo viverlo tutti; quelli che non lo fanno, di certo, pèrdono.